La penna degli Altri 19/01/2010 11:56

Da Volk a Batistuta: gli altri giganti del gol

Per ritrovare, tra le punte avanzate, un altro giocatore di stazza elevata, biso­gna fare un salto di quindici anni. E mi perdoni Zecca (23 gol in 4 stagioni) se dirò che il primo ricordo che ho di lui non è il ricordo di un suo gol ma quello del suo smoking, dei suoi capelli che mi sembra fossero più argentei che biondi. Fu così che si presentò, ancora ubriaco, di prima mattina all'allenamento, dopo una notte di bagordi con Tontodonati, Lucchesi, Contin e Merlin. Vennero tut­ti sospesi, ma la Roma quell'anno retro­cesse anche a causa del disordine mora­le che regnava nel suo spogliatoio. A Zecca subentrò Galli, un gigante dalle leve di argilla, che con i suoi 53 gol me­rita un posto in questa rassegna. Galli si presentò come Toni: una doppietta al suo esordio da titolare (2-0 al Fanfulla), per poi, con la Roma di nuovo in serie A, mettere a segno cinque gol nelle prime quattro partite. Nonostante alcuni gravi infortuni subiti, non ebbe mai paura a gettarsi nella mischia.

Gunnar Nordahl giunse nell'estate del 1956, grondante di allori per i suoi cin­que titoli da capocannoniere. Lo svede­se faceva paura dalla cintola in su: mas­siccio e potente come un toro. Si allena­va correndo i cento metri con un sacco di sabbia sulle spalle. Ma il viso era quello di un bambino, il cuore aveva una schietta bontà fanciullesca. Probabil­mente fu il centravanti più forte del mondo nel suo tempo, ma quando arri­vò alla Roma stava percorrendo il viale del tramonto. Erano gli anni in cui l'umanità celebra­va i riti della potenza, per cui la Ro­ma fece in tempo a comprendere nel suo cimitero degli elefanti anche John Char­les, un altro Atlante chiamato a reggere sulle spalle il peso di una squadra che non riusciva a decollare. Semplice di gu­sti e di natura, odiava le complicazioni tattiche, che allora cominciavano ad an­dare di moda. E dopo una «lezione» te­nuta negli spogliatoi dal dott. Alfredo Foni, mi confidò disorientato: «Mi ha fat­to venire il menisco al cervello». Ma il gusto del muscolo era ancora forte ai suoi tempi e Foni, non potendolo utiliz­zare come centravanti, per difetto di ve­locità, lo usò come 'libero', collocando­lo al centro dello schieramento difensi­vo. Fu proprio allora che dal vivaio del­la Roma scaturì un giovane gigante che possedeva scatto e velocità: Alberto Or­lando, che fece da ponte all'avvento di un altro gigante che veniva dal Brasile, Angelo Benedicto Sormani. Se Nordahl aveva fatto pensare a Ursus e Charles a Maciste, Orlando rilanciò negli stadi il mito di Tarzan. Era un ragazzo del popo­lo, senza peli sulla lingua, ma per far ri­nascere il mito di Ercole, bisognerà aspettare Paolone Barison («se zoco, spaco tuto»).

Se Orlando (33 gol in cinque stagioni) era primitivo e vitalissimo, Sormani, schiacciato tra Orlando, Angelillo e Manfredini, soffrì soprattutto di malin- conia. Declassata dopo i sogni di gloria di Marini Dettina, la Roma di Pugliese aveva intanto bisogno di un uomo pa­ziente. Quest'uomo paziente fu Barison, ambulante del gol. Barison era l'uomo d'esperienza e di peso che serviva a Oronzo Pugliese per esaltare la sua Ro­ma scoppiettante, come una castagna sul fuoco.

Come dovrei definire adesso Enzo: un centravanti solido come una corazzata o una corazzata che non aveva niente del centravanti? Enzo era in verità tutto mu­scoli e poco cervello. Segnò un gol deci­sivo in un derby e scandalizzò lo stadio di Milano mettendosi a cavalcioni su Burgnich, rotolato a terra dopo aver in­gaggiato con il centravanti l'ennesimo esercizio di lotta libera. Questo è quan­to ci ricordiamo di lui.

Di tutt'altra statura tecnica fu Pierino Prati, detto la peste per quel suo carat­tere capriccioso, imprevedibile, simpa­tico e perché faceva diventar matti i por­tieri e i difensori avversari. Arrivò alla Roma nel 1973, a prezzo di molti sacri­fici economici, pretendendo un ingaggio superiore del 60% a quello percepito nel Milan. Aveva straordinarie doti atleti­che che rendevano imprevedibile ogni sua conclusione a rete. Lo chiamavano anche Pierino mezza carcassa per via di quelle sue gambe magrissime come i sostegni di legno di una bancarella. Il suo campionato più bello in maglia gial­lorossa fu quello con la prima Roma di Liedholm, in coppia con Valerio Spado­ni e la squadra, dopo tanti anni, conob­be gli allori del terzo posto.

Anche «Ciccio» Graziani sarebbe sta­to un altro, senza la possente struttura da torello di campagna che lo distingue­va. Nelle interviste voleva fare la faccia truce da killer delle aree di rigore, ma riusciva solo a farci sorridere, con quel­la calata burina nella voce. Piaceva alle ragazze ed era considerato come uno che avrebbe potuto fare l'attore, solo perché era nato nello stesso paese di Gi­na Lollobrigida. E neppure la prima scialba e sfarfallante televisione a colo­ri riuscì a sfaldare la sua immagine gra­nitica, anzi conferì alle sue prodezze un fascino crepuscolare. Era schietto e ge­nuino sino all'ingenuità. Su di lui non operavano gli incantesimi della metro­poli. Il suo cuore è sempre rimasto an­corato ai monti, alle contorte vallate che piacquero a San Benedetto. Venne alla Roma quando era diventato campione del mondo ed era ormai tutto occhi e tut­ta testa. Mi ritorna in mente quella sera di agosto del 1983, con la Roma in ritiro in montagna. Dal braciere del barbecue si era alzato un gran fumo e dentro quel fumo avanzò, come un incantesimo, la sagoma possente di Graziani, che mi chiese: «Mi riconosci? Sono qui». Non era ancora arrivato all'età della pensio­ne, ma venne fucilato per aver sbaglia­to un rigore decisivo nella finale di Cop­pa Campioni con il Liverpool. Quella palla avrebbe dovuto essere calciata dal campione più forte, più bello, più adora­to della Roma di Liedholm, quel Paulo Roberto Falcao che invece «fece per vil­tà lo gran rifiuto». Graziani ritornò in­dietro dal dischetto, come un cane ba­stonato, con il torace ancora sporgente, con gli occhi infiammati dalla vergogna e dalla rabbia. E non fu per niente faci­le per quelli che lo avevano visto trion­fare contro la di Zoff, Gentile, Ca­brini e Scirea, contro la Germania di Briegel, Muller, Rummenigge, separar­si da lui.

Ed eccoci infine a Gabriel Batistuta, protagonista del terzo scudetto. Quando lasciò Firenze aveva in testa un solo pensiero: «Voglio vincere uno scu­detto». E' stato il dono più costoso fatto alla Roma di Fabio Capello da Franco Sensi. E' stato l'uomo in più per tutto il girone di andata del campionato che do­veva poi concludersi con il trionfo trico­lore. La sua età sembrava ormai indefi­nibile, ma aveva ancora la giovinezza della volontà a farne per l'ennesima vol­ta un simbolo del gol. Quando tirava in porta gli anni sembrava non fossero pas­sati. Quante volte è stata raccontata la storia di Batistuta e della sua venuta in Italia! Be', adesso posso raccontarvela anch'io. Ero stato invitato a casa di Ma­rio Cecchi Gori, interessato all'argentino La Torre, per osservare una cassetta che riprendeva alcune azioni del giocatore. Erano tutte azioni che esaltavano la ve­locità e i «cross» effettuati dall'ala che piaceva alla . Alla fine mi fu chiesto un parere, che fu naturalmente favorevole. Poi aggiunsi: «La Torre è bravissimo a fare l'ala, ma vi siete ac­corti che ogni volta che rimette al centro la palla c'è un attaccante che fa sempre gol?». Quell'attaccante era Batistuta. La li prese tutti e due.