La penna degli Altri 16/04/2010 09:31

I sindaci, gli slogan e la scarsa prudenza

Essere scaramantici è da sciocchi, ed è pure un esercizio volgare assai. Va bene. Però tutti ricordano il primo cittadino dell’epoca, Ugo Vetere (comunista succeduto a un altro comunista, Luigi Petroselli, improvvisamente deceduto nell’ottobre del 1981) tutti lo ricordano raggiante in Campidoglio nelle cerimonie che precedettero Roma-Liverpool, tragica - calcisticamente parlando - finale di Coppa dei Campioni.

Finì ai rigori e finì male (sbagliarono Conti e Graziani, l’ultimo degli inglesi a metterla dentro fu Alan Kennedy). Stadio Olimpico muto, à stordita, in trecentomila al Circo Massimo sotto il palco di Antonello Venditti che, in lacrime e con il pianoforte senza corrente, attaccò lo stesso a cantare l’inno. Finché - e qui arriviamo al sortilegio - sul palco non salì appunto il sindaco Vetere. Che disse: «Quella coppa, presto, sarà comunque nostra». Infatti.

Addirittura peggiore, comunque, fu la scena su cui si mosse, due anni più tardi, Nicola Signorello (democristiano di rigida osservanza andreottiana). Era il 20 aprile 1986: magnifico sole sull’Olimpico eccitato e pronto ad assistere a Roma-Lecce, penultima di campionato. Con il Lecce già matematicamente in serie B e con la Roma lanciata, dopo una rimonta strepitosa, alla conquista dello scudetto.

Ma a mezz’ora dall’inizio, sulla pista di atletica, chi comparve accanto al presidente Dino Viola (che nostalgia canaglia, presidente...)? Lui, il sindaco Signorello. Che si esibì nel più trionfale e iettatorio giro di campo che la storia del calcio ricordi.

Il sindaco sorrideva allegro e, ormai certo della vittoria, mandava baci ai tifosi che, cedendo al buon senso, si lasciarono trascinare nella più struggente delle feste premature.

Finì 3 a 2 per il Lecce. Lo scudetto lo vinse la , bianconeri increduli. Come i loro tifosi. Compreso Walter Veltroni. Che, infatti, quando nel 2001 si sedette sulla poltrona del Campidoglio, la prima cosa che fece - lui che quando dirigeva l’Unità parlava regolarmente al telefono di calcio e di con Gianni Agnelli - fu quella di disertare, in via precauzionale, a scanso di equivoci, l’Olimpico. Con un colpo di genio assoluto. Appassionarsi, diciamo così, al basket. Veltroni, la domenica pomeriggio, cominciò ad andare al Palazzo dello sport e a fare, persino, il tifo.

Sublime, così, fu poi vedere Antonello Venditti allacciargli la sciarpa giallorossa al collo, mentre salutava la bolgia romanista al Circo Massimo, nella festa del terzo scudetto (già acquisito, però).

Ricapitolando. Il malcapitato Vetere, l’avventato Signorello, il furbo Veltroni.

Sindaco Alemanno, sia prudente. Un problema - forse - qui c’è.