La penna degli Altri 10/07/2011 12:12

Quell’attesa a via Veneto, un’altra pagina di poesia nella nostra storia

Via Veneto, vale a dire il regno di uno dei grandi argentini

della storia della Roma,
Francisco Ramon Lojacono. Il Cisco, seduto ai tavoli dei locali alla moda, aveva legato con Gino Cervi, Renato Rascel, Vittorio Gassman, Walter Chiari e Carlo Dapporto (che gli presentò Claudia Mori, destinata a divenire la sua compagna per un anno e mezzo), ma tra gli stessi tavoli sedevano anche Flaiano, Ungaretti e Vittorio De Sica, l’uomo che con la bellezza del suo Ladri di biciclette, aveva fatto piangere Charlie Chaplin.  Sempre a Via Veneto, come Lojacono raccontò in una memorabile intervista concessa nel 1999 al mensile  Rosso&Giallo, avvenne l’incontro con Anna Magnani: «Era una donna – ricordava Cisco – che aveva un fascino incredibile, con lei a Via Veneto facevo l’alba a parlare dell’Argentina, di Buenos Aires, del tango… aveva un debole per il tango. Con lei trascorremmo memorabili sere d’estate».

Anna Magnani che balla il tango con Lojacono, davvero niente male come immagine.  Ma per bellezza non scherza neanche l’apertura dell’opuscolo monografico: Guaita, Mago del gol, pubblicato dalle Edizioni Baggioli nel 1935 (al costo di 30 centesimi): «Nogaya. Un piccolo centro sperduto nell’immensità della pampas. Quattro casuole di legno che son baracche, cavalli, sole, polvere, prodezze di cowboy. Anche a Nogaya il cielo è solitamente azzurro, ma è di un azzurro bruciato da un sole che è talvolta implacabile, da un sole che non tollera zone riposanti di verde. E rende la terra brulla e l’occhio si stanca. Il padre, lontano ma non dimentico, ha spesso parlato al piccolo Enrique di ben altro azzurro del cielo: un azzurro che mette letizia al cuore, che parla agli oggetti e alle cose, che veste a festa l’animo della gente e sole e fiori, e bellezze naturali: un incantesi mo. Il ragazzo sogna: “Quando torneremo in Italia, papà?”».  

Da Nogaya Enrique Guaita tornerà in Italia, nel maggio 1933 per giocare nella Roma. Guaita, il futuro "Corsaro nero". I fotografi lo bloccarono a Piazza Esedra, ritraendolo sullo sfondo della fontana, con la biondissima moglie Nelly e il cagnolino Boby. Guaita, una sorta di Batistuta potenziato, semplicemente immarcabile, nel campionato italiano come in quello Mondiale. Scrivono gli argentini e si fanno leggere, ecco come Manfredini che racconta così il suo primo incontro con Angelillo: «Lo conoscevo si dai tempi in cui giocavamo a Buenos Aires. Io venivo da Mendoza, lui era già un giocatore affermato. Un giorno fui invitato al matrimonio della sorella di un mio compagno di squadra che si sposava con un amico di Angelillo.

Ci scambiammo poche parole, poi ci rivedemmo nello spogliatoio di San Siro, prima di un Inter–Roma. Fu per tutti e due una grandissima festa. Ci abbracciammo e ci scambiammo le nostre impressioni. Mi disse subito che soffriva di nostalgia. Gli chiesi: “È dura da vincere?”. E lui: “Non è dura, è durissima. Io ho passato un anno d’inferno. Ti giuro Pedro, che la notte mi svegliavo e piangevo. Non sapevo rassegnarmi all’idea d’essere così lontano dalla mia terra e tra gente, qui a Milano, che aveva per me soltanto espressioni di disprezzo e di duro sarcasmo”. Lo ascoltai e mi commossi (…). Tempo dopo, io e Lojacono gli dicemmo, un po’ scherzando, che lo avremmo portato a Roma come un fratellino minore bisognoso di cure».

Anche il più pragmatico degli argentini, è riuscito, nella sua carriera, ad essere poetico senza parlare, anzi. Il 10 aprile 1997, a , (Luis Enrique e De La Pena quella gara la videro da spettatori, mentre giocarono nel ritorno), in Coppa delle Coppe, Gabriel Omar Batistuta fece diventare il calcio poesia. Al 17’ della ripresa addomesticò un lancio con il petto, si portò avanti la palla con il ginocchio e quindi, appena fuori

dalla linea che delimita l’area di rigore, scaricò una bomba che trafisse Vitor Baia. Quindi zittì il Camp Nou, con il gesto che da quel momento divenne un suo marchio di fabbrica.  A Lamela che è arrivato a Roma, la responsabilità, tutt’altro che agile, di raccogliere “l’eredità letteraria” degli argentini della Roma. Non si tratta di scrivere poesie, ma di scrivere la storia della Roma, che poi, a pensarci bene è la stessa cosa.